“Le parole sono importanti”

Come genitore di ragazzo con autismo “severo”, non ho mai compreso molto le accese discussioni, tra coloro che ruotano intorno questa sindrome (famiglie, specialisti, operatori, insegnanti, etc), rispetto al corretto modo di riferirsi o di parlare delle persone con autismo.

E’ più giusto dire “persona con autismo” o “persona autistica”, è corretto dire “autistico a basso funzionamento” o esiste una definizione più adeguata?

Sarà che quotidianamente mi scontro direttamente o indirettamente (attraverso le esperienze di altri genitori) con problemi “meno teorici” e “più pratici” (terapie inadeguate, scuole con personale non formato, gestione in casa dei comportamenti problema, etc.) che disquisire su altro mi sembra una perdita di tempo.

Recentemente è arrivata una mail, a un gruppo di una mailing-list di Angsa (autismo-biologia@autismo33.it), molto interessante della dott.ssa Flavia Caretto¹ che riteniamo opportuno pubblicare sul nostro sito in quanto evidenzia come l’utilizzo di alcune terminologie, assolutamente semplicistiche, possano essere un veicolo di cattiva interpretazione dei comportamenti delle persone con autismo.

Questo ha un impatto negativo sulla percezione che soprattutto i non addetti, hanno della sindrome e di conseguenza hanno delle persone che sono interessate da questa sindrome, rendendo ancor più difficile l’integrazione sociale.

Come diceva Nanni Moretti in un suo noto film “le parole sono importanti” e lo sono ancor di più quando si parla di persone (ahimè) socialmente deboli.

Consigliamo la lettura che segue, come spunto di riflessione.

¹ La dott.ssa Flavia Caretto laureata in Psicologia si è poi specializzata in Psicoterapia, con orientamento cognitivo comportamentale. E’ autrice di diverse pubblicazioni sull’autismo. Tra le altre cose è presidente dell’associazione Culturautismo Onlus.


 

Flavia CarettoSalve, sono Flavia Caretto, psicologa.

Leggo sempre con attenzione le e-mail della lista autismo-biologia, pur non essendo un medico o un biologo, e senza la pretesa di comprendere davvero ciò che si pubblica.

Vorrei segnalare qualcosa che mi appare come un problema. Noto che spesso si utilizza, nelle semplificazioni giornalistiche, ma anche nel parlare comune “intorno” all’autismo, un linguaggio privo di rispetto, a prescindere dal “dato” a cui ci si sta riferendo. Si utilizzano parole che hanno assunto una connotazione di giudizio nell’uso comune – una connotazione da cui non si può prescindere. A volte il senso sociale di un termine “prevale” su quello tecnico (e rende il termine semplicemente offensivo) mentre altri termini veicolano concetti semplicemente errati. Ad esempio, la definizione di “comportamenti antisociali” riferita all’autismo, non ha alcun riscontro nella letteratura scientifica, ed è stigmatizzante, in quanto evoca contrapposizione e pericolosità sociale. Alcuni titoli giornalistici in verità non hanno proprio alcuna relazione con il contenuto: immagino che vengano scelti per indurre qualcuno a leggere di più.

Ma spesso l’autismo viene descritto anche nelle pubblicazioni scientifiche (anche e forse soprattutto da chi non ha conosciuto – lavorato – vissuto con persone autistiche) in termini fortemente e radicalmente, direi “violentemente” e unicamente, negativi, che mi lasciano imbarazzata.

Da persona tipica, cerco di capire le motivazioni che spingono le altre persone tipiche a fare generalizzazioni e semplificazioni, ma trovo comunque che far “rimbalzare” definizioni sbagliate da una notizia all’altra non ottenga altro effetto di aumentare lo stigma, e quindi, in definitiva, di allontanare le possibilità di comprensione sociale dell’autismo e di migliorare la qualità della vita delle persone autistiche e delle loro famiglie.

Se e quando è possibile, si dovrebbe porre attenzione ad usare un linguaggio corretto e ad evitare le terminologie che esprimono giudizi di valore e non corrispondono ai “dati” sperimentali. Non mi sembra solo una condizione di buon senso e di buona educazione, ma un problema di sostanza e di diritti.

Per ottenere un linguaggio corretto, basterà mettersi nei panni di un lettore autistico, e immaginare che la terminologia usata venga riferita a noi. Considerato che “accusiamo” le persone autistiche di scarsa empatia, non ci dispiacerà dimostrarne un po’, vero?

Flavia Caretto

18 marzo 2015

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