A metà marzo sono stati pubblicati dalla SIDiN, la Società Italiana per i Disturbi del Neurosviluppo i “Consigli per la gestione dell’epidemia COVID-19 e dei fattori di distress psichico associati per le persone con disabilità intellettiva e autismo con necessità elevata e molto elevata di supporto” ed il 30 Marzo il rapporto Covid 19 dell’ISS, che propone delle “Indicazioni per un appropriato sostegno delle persone nello spettro autistico nell’attuale scenario emergenziale SARS-CoV-2”.

Ma a tutt’oggi nel Lazio, nonostante l’art.9, c.2 del DPCM del 9 marzo 2020 che prevede la costituzione di Unità Speciali coinvolgendo le organizzazioni rappresentative delle persone con disabilità, siamo ancora in attesa di una procedura che individui percorsi specifici per persone con disabilità intellettiva e autismo con necessità di supporto intensivo e non collaboranti nel caso in cui ci fosse sospetto o contagio da Covid-19.

E le sentite e crude parole di un genitore, Clara Cerri, lo testimoniano attraverso questa lettera che condividiamo con voi.

Dipinti di blu
Mi sono accorta dai social che era di nuovo il 2 aprile, la giornata della consapevolezza dell’autismo. Mi misuro la febbre per l’ennesima volta, poi la misuro a mio figlio: niente febbre, per fortuna, solo mal di testa. Segno le ore in cui prendiamo le medicine, perché alla fine sono tante e la mia testa non è quella di una volta, e sono sola.

Non sono mai stata una madre esemplare o eroica: da quando so che mio figlio è autistico ho cercato sempre tutto l’aiuto possibile, perché un figlio autistico a basso funzionamento è impegnativo. Con l’epidemia di coronavirus ho visto tutte le stampelle del vivere quotidiano cadere una a una. Prima si sono interrotti gli allenamenti di calcio degli Insuperabili, poi ha chiuso la scuola. Mia madre, 85 anni, ha scelto di isolarsi perché “non si sa mai”. L’ha fatto, per una di quelle coincidenze miracolose che nei romanzi vanno forte, due giorni prima che tutti in famiglia, padre, madre e ragazzo autistico di 18 anni, cominciassimo ad avere febbre, dolori, tosse secca. E cominciassimo a chiederci se fosse questo il Covid-19: ma senza un tampone non si può sapere, e il tampone, dicono tutti i numeri verdi che chiamiamo, si fa solo a chi viene da una zona rossa o ha avuto contatto con un contagiato accertato.
«State a casa e sentite il medico di famiglia».
L’assistenza domiciliare di nostro figlio viene interrotta per quattordici giorni. E se fossimo davvero ammalati di Covid-19, e finissimo ricoverati entrambi, chi si occuperebbe di lui?
«Di quello si occuperanno i servizi sociali, signora».
Suona malissimo, ma è una certezza con cui affrontiamo i giorni che seguono, sempre con la febbre, sempre con la paura, sempre soli in casa. Sto troppo tempo su Facebook, e proprio lì leggo di persone con i miei stessi sintomi, mal di testa, anosmia, e alla fine non era influenza comune, era proprio quella cosa là. Vado avanti con poco sonno e molti FANS fino al ricovero di mio marito, che soffre di problemi polmonari pregressi, al decimo giorno di febbre alta. Il tampone è positivo. Ma noi stiamo guarendo, e lui non è grave. Starà in isolamento, sarà curato e questo mi sembra una piccola vittoria. La solitudine amplifica il silenzio del mondo di fuori, e i giorni si trascinano. Mio fratello e mia cognata ci fanno la spesa, mi ingegno di cucinare le cose che piacciono a mio figlio, gli faccio sentire i dischi di quando era piccolo. Sicuramente la ASL ci contatterà e ci farà fare un tampone: ora siamo stati a contatto con un contagiato accertato. Aspettiamo, ci diranno cosa fare. Vorrei solo stare meglio, ma un giorno che sto peggio faccio una borsa per me e per lui, faccio qualche telefonata e scopro che nessuno sa esattamente cosa dovrebbe avvenire di mio figlio se mi facessi ricoverare. Essendo stato a contatto con un contagiato, nessuna struttura residenziale lo potrebbe accogliere. I documenti che gli amici mi inoltrano sono solo dichiarazioni delle associazioni: un protocollo per questi casi non esiste. Il medico della sala operativa sociale mi sa solo dire «Chieda al 118».
La dottoressa del 118, paziente e umanissima, mi dice che posso portarlo con me in ospedale. Però la nostra saturazione è buona e i miei polmoni, all’auscultazione, sono liberi. La certezza si può avere solo con una lastra e una TAC, ma mi dovrei ricoverare. Mio figlio, già pronto con giubbotto e scarpe, non ne vuole sapere di mettere una mascherina. Alla fine, d’accordo con la dottoressa, resto in casa. Richiamerò se peggioro, lascio le borse fatte. Prima o poi ci faranno il tampone.
La visita mi ha tranquillizzata e, come molte donne impressionabili, di fronte alle sfide divento di colpo pragmatica. Si farà fare il tampone un ragazzo appena verbale che rifiuta di farsi visitare, che a stento si è fatto mettere al dito la pinzetta del saturimetro? Chiedo su Facebook, chiedo al suo psicologo, chiedo agli Insuperabili che mi mandano un Powerpoint in cui si mette in scena “la storia del tampone” che deve spiegargli cosa accadrà. Da Facebook mi arrivano aiuti morali (i consigli di Mirella Lipari, specializzata in autismo) e materiali (due mascherine): finalmente ho una giustificazione al mio stare troppo tempo sui social. Quando mi ricapita più?
La storia del tampone non gli piace, giocare a mettiamoci il cottonfioc nel naso non lo esalta, ma quando arriva il dottore della ASL, da solo e nemmeno troppo robusto, all’apparenza, il mio ragazzo si lascia tamponare con l’aria arcigna di un gatto costretto a fare il bagno. Risulterà poi che il dottore lavora con la Croce Rossa ed è stato in Afghanistan, in Siria, in Abruzzo dopo il terremoto, insomma ne ha viste tante, che sarà mai un autistico di un metro e ottanta.
In questo momento in cui scrivo ho di nuovo il mal di testa e quel sapore schifoso bastardo in bocca, sapore di paura e di malessere che ti tronca le gambe. Sto aspettando da più di 24 ore di sapere se siamo positivi, o se lo siamo ancora, come l’attesa di un’estrazione in cui potrebbe uscire un ambo o, Dio non voglia, un terno. Eppure, se lui fosse negativo e io positiva, come faremmo? Devo aiutarlo in tutto, come potrei stare isolata da lui? Lavarsi molto le mani e non baciarlo basta? Passare la varechina? È vero che ci si può infettare di nuovo?
Con questo cliffhanger, come dicono quelli bravi, finisce una storia con molti motivi di conforto: in ogni caso siamo stati fortunati, l’assistenza medica è arrivata, molte persone di buona volontà ci hanno aiutati – devo un aperitivo a Mirella nel locale di Francesco, quando tutto questo sarà finito, e molti abbracci agli Insuperabili e a Marco De Caris. Non scrivo per lamentarmi, non ne avrei il diritto, di fronte alla vastità di questa tragedia. Scrivo perché si sappia cosa significa la solitudine che molte altre famiglie di disabili stanno vivendo, nell’assenza di una procedura riconosciuta, di una qualche certezza, cosa significa vivere l’attesa e la malattia in una condizione che non ha alternative. Il virus è un ente cieco, noi siamo umani e se vogliamo davvero che tutto vada bene, visto che questa quarantena è destinata a durare, dobbiamo immaginare qualcosa di diverso da questo.

Clara Cerri

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